La depressione non è un prodotto della biochimica del cervello e dei livelli di serotonina (da un articolo dell'Huffington Post)
di David Lazzari Non sono i fatti in sé ma soprattutto come noi li viviamo che creano il rischio depressivo, cioè il profilo psicologico, emotivo e cognitivo, che associamo ai fatti
22 Luglio 2022 alle 14:02
Da anni moltiplicavano gli studi e le prese di posizione sulla inconsistenza della teoria, data per decenni come assodata, che la depressione fosse dovuta a uno squilibrio nella biochimica cerebrale, dovuto soprattutto alla serotonina.
Avevano fatto scalpore oltre dieci anni fa gli studi di Irving Kirsch (ed. ital. "I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito. Dalle pillole della felicità alla cura integrata") che mostravano come la maggior parte dei farmaci antidepressivi aveva una efficacia simile al placebo. Oggi una "systematic umbrella review" delle evidenze, cioè una analisi degli studi affidabili disponibili a livello internazionale coordinata da Joanna Moncrieff e Mark Horowitz (c'è anche l'italiano Simone Amendola) ha dimostrato, dati alla mano, che "la ricerca non supporta l'ipotesi che la depressione è causata da bassi livelli di serotonina".
Una conclusione che vale considerando tutte le aree di ricerca nel campo: i livelli di serotonina nel sangue e nei fluidi cerebrali, i recettori serotoninergici, le proteine "transporter" che facilitano alcuni effetti della sostanza, le varianti genetiche. Alcuni risultati sono addirittura paradossali: l'attività serotoninergica risulta superiore nei soggetti depressi. Ci sono studi che hanno valutato nel tempo una riduzione dei livelli di s. prodotti artificialmente in soggetti volontari non trovando nessun effetto depressivo.
La notizia travalica il dato scientifico per assumere una forte connotazione culturale e sociale. Il messaggio che la depressione è solo "un prodotto della biochimica del cervello" non ha generato solo l'idea che c'è bisogno di una sostanza chimica (il farmaco) per curarla, ma anche - ed è dimostrato - un atteggiamento più pessimistico e fatalistico nelle persone rispetto al problema.
Anche altre cause puramente biologiche, come quelle genetiche, si sono mostrate deludenti. Non si diventa depressi per colpa dei geni, servono sempre delle situazioni, dei vissuti, che fanno la differenza. Oggi si parla molto dell'infiammazione come fattore di rischio ma lo stato infiammatorio del corpo, a parte avere una malattia, è per lo più la conseguenza di una condizione di stress. Quindi il cerchio si chiude.
Abbiamo una montagna di dati sul ruolo dell'infanzia, dei traumi, dello stress, delle relazioni disfunzionali: la psicologa USA Constance Hammen ha dedicato la sua vita a questo tema e ha offerto una sintesi di tutti questi fattori di rischio (2018). Basti pensare che una infanzia psicologicamente problematica, una madre sofferente di depressione, arrivano a triplicare il rischio di soffrire di depressione nelle fasi successive della vita.
È importante sottolineare che non sono i fatti in sé ma soprattutto come noi li viviamo che creano il rischio depressivo, cioè il profilo psicologico, emotivo e cognitivo, che associamo ai fatti. Anche perché la reazione psicologica si lega e orienta quella biologica e comportamentale. Ed è altrettanto importante sottolineare che l'atteggiamento psicologico si può modificare: saperlo è la chiave d'accesso.
In una società dove aumentano le depressioni gravi ma molto di più i disturbi depressivi più comuni (una persona su cinque), dove la depressione è destinata a diventare il costo più alto per la società tra tutti i problemi di salute, è bene che su questa tematica l'attenzione si sposti dalle cellule alla persona. Non solo serve una psicoterapia pubblica (a valle) ma anche una rete psicologica di prevenzione e promozione della resilienza (a monte). Il microscopio ha un enorme valore per capire i problemi ma non ci si può fermare lì, bisogna alzare lo sguardo e avere il coraggio di guardarsi intorno.